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domenica 23 settembre 2012

"Accorpamenti e spending review: stiamo buttando via il bambino per berci l’acqua sporca" Prc interviene nel dibattito sul riordino delle Province



SIENA. In questi giorni il dibattito sull’accorpamento delle province ha scatenato un’intensa opera di proposte e posizionamenti delle varie forze politiche ognuna impegnata nel lamentarsi dell’accorpamento e, al contempo, propagandare Siena come capoluogo di non si sa bene cosa (Grosseto?, Arezzo?, entrambe?)
Leggendo ad esempio il resoconto scaturito dall’iniziativa organizzata dal PD su questo tema, siamo rimasti confusi nel sentire dichiarazioni come quelle del responsabile provinciale degli enti locali Biagianti il quale, ci sembra di capire, veda con angoscia la mancanza di democrazia che si verrebbe a creare con l’istituzione di superorganismi composti da poche persone non elette dai cittadini e s’interroga con preoccupazione su come poter salvare e razionalizzare le funzioni e i servizi che attualmente svolgono le province. Siamo pienamente d’accordo ma… ci sembra di notare un’ipocrita schizofrenia nel sentir chiedere ai propri parlamentari di non appoggiare una riforma che hanno già provveduto a sostenere. Tutto ciò ha dell’assurdo e raggiunge il grottesco se ci sommiamo il fatto che non è carino fingere di preoccuparsi del corretto riordino dei servizi ai cittadini dopo aver votato in parlamento le “Disposizioni urgenti per la revisione della spesa pubblica” meglio nota come Spending Review, la quale non riduce per nulla selettivamente gli sprechi e la spesa pubblica inutile, come contestato dal nostro Partito al Presidente Monti nella sua giratina a Siena, ma serve ad aumentare i tagli agli Enti Locali, alla sanità, ai servizi.
Il Partito della Rifondazione Comunista è cosciente del sentimento di repulsione verso la politica che anima il popolo. E siamo anche coscienti di come ciò generi una confusa disattenzione verso i problemi della rappresentanza democratica che viene ormai disegnata dai media come un costo del tutto improduttivo. Se siamo giunti a questo, però, non è colpa della troppa democrazia (che per noi è controllo dal basso da parte dei cittadini sulle azioni degli eletti) bensì del suo esatto opposto. Come esempio di ciò possiamo portare le privatizzazioni di tutti quei servizi pubblici che venivano svolti dai lavoratori direttamente impiegati dai Comuni e le Province i cui costi potevano essere controllati mentre da anni si è moltiplicato a dismisura il ricorso alla creazione e al foraggiamento di appalti e, soprattutto, di società partecipate (per la Provincia di Siena parliamo di circa 20) che a loro volta hanno consigli di amministrazione che prevedono per i loro membri indennità di molte decine e in qualche caso di centinaia di migliaia di euro (pensiamo ai Presidenti di Apea, di SienAmbiente di Siena Casa, dell’Aeroporto di Ampugnano etc.) E’ evidente come questi enti derivati abbiano creato dei “postifici di lusso” ad uso indiscriminato dei partiti politici che gestiscono il potere.
Se quanto detto sin qui è il vero motivo fondante del sentimento generalizzato di antipolitica ci chiediamo come la soluzione a questi problemi possa essere la contrazione del numero delle province se ad essa corrisponde, ad esempio, il proliferare delle Unioni dei Comuni tanto care al PD e al PDL, anche'esse istituzioni delegate, elette dai consigli comunali e non sottoposte al voto ed alla partecipazione dei cittadini, in cui si rafforza la gerarchizzazione della politica e insieme la moltiplicazione degli enti e delle funzioni che creano posti di potere e costi aggiuntivi.

Le ragioni di fondo del nostro giudizio assai negativo sul provvedimento sono dunque chiarissime: in primo luogo, si tenta di azzerare il sistema di elezione democratica degli EELL, innalzando ulteriormente soglie di sbarramento e centralizzando tutti i poteri nei Presidenti; in secondo luogo, i tagli e il mutamento delle circoscrizioni provinciali (art.13 della Costituzione) lungi dal consentire risparmi – come indicato da un recente studio elaborato dal CERTET Bocconi – produrranno costi aggiuntivi per lo Stato e la Pubblica Amministrazione ingenerando caos e conseguenze pesanti per i lavoratori impiegati nei servizi (tanto più se in appalto) e i cittadini che di questi servizi avrebbero diritto di fruire come sancito costituzionalmente.
Infine, a proposito di PD e Costituzione, ci chiediamo come mai ben sette Regioni abbiano promosso contro l’art. 23 del DL 201/2011 un ricorso alla Corte Costituzionale ma tra queste non ci sia la Regione Toscana la cui Giunta ha scartato tale azione con l’unica contrarietà di Rifondazione Comunista. C'è da capire in questo quadro quali saranno le future mosse del Pd, se ci si fermerà alla “convegnistica” o se si farà realmente pressione sul Presidente della Regione Rossi per un'azione di contrasto all’implementazione di questo provvedimento.

Matteo Mascherini - Segretario Provinciale PRC Siena
Angela Bindi - Resp.le Provinciale Enti Locali PRC Siena

27 ottobre: NO MONTI DAY - Intervista fiume a Giorgio Cremaschi








http://www.libera.tv/videos/3505/27-ottobre-no-monti-day---intervista-fiume-a-giorgio-cremaschi.html

venerdì 21 settembre 2012

Il catastrofico day after per gli italiani


di Vladimiro Giacchè
Caso Ilva e caso Alcoa. Due storie molto diverse tra loro, che hanno però anche qualcosa in comune. In entrambi i casi, si tratta di ex imprese pubbliche che sono state privatizzate.
È un buon esempio di quanto pesino tuttora sulla nostra economia gli esiti delle privatizzazioni degli anni Novanta. Già questo sarebbe un ottimo motivo per occuparsene. Ma non è il solo. Oggi si torna a parlare della vendita di proprietà pubbliche per ridurre il debito. Sarebbe una buona idea? Capire cosa è successo venti anni fa può aiutarci a rispondere a questa domanda.
1) Dal 1992 al 2000 la gran parte dell’i n dustria di Stato e delle banche pubbliche è stata posta sul mercato. Si tratta del più ampio processo di privatizzazione mai realizzato in Occidente. La tecnostruttura guidata da Mario Draghi, all’epoca direttore generale del Tesoro (che mantenne la carica sotto 6 diversi ministri), privatizzò imprese statali per un valore di 220.000 miliardi di lire, oltre 110 miliardi di euro.
Questo rispondeva al primo obiettivo delle privatizzazioni: fare cassa per ridurre il debito pubblico ed entrare nel club della moneta unica. Anche se in molti casi sarebbe stato più conveniente per lo Stato mantenere il controllo delle imprese e incassare ogni anno un dividendo.
2) Ma c’era anche un secondo obiettivo: ridurre il ruolo dello Stato nell’economia e aumentare la concorrenza. Come scrisse Dario Scannapieco, membro del team di Draghi al Tesoro e oggi vicepresidente della Bei «si è sfruttata l’occasione offerta dalla necessità ed urgenza di rispettare gli stringenti vincoli esterni, imposti dalla partecipazione all’Unione Monetaria Europea, per avviare iniziative volte alla ridefinizione del ruolo dello Stato ed alla riforma, in senso maggiormente concorrenziale, dei mercati ». La prima cosa fu realizzata, la seconda no. Ma è proprio la presenza di concorrenti che costringe le imprese ad adottare comportamenti efficienti, mentre non esiste alcuna dimostrazione scientifica della maggiore efficienza dell’impresa privata rispetto all’impresa pubblica in quanto tale. Tra le società privatizzate vi erano monopoli naturali, per definizione non soggetti alla concorrenza (si pensi alle autostrade). In altri casi, non furono attuate le necessarie liberalizzazioni prima di privatizzare, e quindi le imprese privatizzate poterono godere di una rendita di monopolio.
Una ricerca condotta anni fa da Giovanni Siciliano sulle banche italiane privatizzate evidenziò dati deludenti sia in termini di produttività, che di redditività; a quest’u l timo riguardo le banche piccole non privatizzate andavano addirittura meglio di quelle privatizzate. Tanto da indurre lo stesso Siciliano a concludere: «È difficile dire se le privatizzazioni bancarie abbiano «funzionato».
3) Infine, il terzo obiettivo delle privatizzazioni: rafforzare con la quotazione in borsa delle imprese ex pubbliche il mercato azionario italiano, introdurre anche in Italia il modello della public company anglosassone (l’impresa quotata con un capitale distribuito tra molti azionisti), inducendo anche molte imprese private a quotarsi e dando vita così alla «democrazia economica dei piccoli investitori». Da questo punto di vista il fallimento delle privatizzazioni è stato pressoché totale. È vero che negli anni delle privatizzazioni i tre quarti della capitalizzazione di borsa furono costituiti da società ex pubbliche. Ed è vero che molti risparmiatori (e anche molti lavoratori delle ex imprese pubbliche privatizzate) parteciparono alle privatizzazioni. Ma già nel 2003 Luigi Spaventa, all’epoca presidente della Consob, osservò che «la maggior parte delle principali società private ad azionariato diffuso sono state oggetto di successive acquisizioni che hanno portato in alcuni casi al loro delisting [cancellazione dalla Borsa] o alla determinazione di un assetto di controllo fortemente concentrato».
Da allora, la concentrazione del controllo delle imprese quotate è ulteriormente cresciuta, pochissime società private si sono quotate e la capitalizzazione complessiva di Borsa a maggio 2012 è oggi inferiore al 20% del prodotto interno lordo (era maggiore nel 1996).
In compenso, molti nomi storici del capitalismo italiano si sono comprati imprese pubbliche in vendita. Rivolgendosi in particolare verso quelle che forniscono servizi di pubblica utilità. Il perché è presto detto: queste società rappresentano una fonte di profitti certa, che spesso può godere di una rendita di monopolio o di oligopolio. Si tratta per di più di una fonte di profitti sottratta non soltanto alle fasi alterne del ciclo (le bollette si pagano sempre), ma anche alla concorrenza internazionale.
A consuntivo, il risultato delle privatizzazioni per il sistema economico italiano è a dir poco deludente. La presenza del settore pubblico nell’economia si è ridotta al lumicino, ponendo la parola fine all’economia mista che aveva caratterizzato il nostro paese per molti decenni e privando lo Stato di strumenti fondamentali di politica industriale e anche di intervento nella congiuntura (si pensi al costo delle tariffe autostradali, o alla restrizione del credito alle imprese a cui stiamo assistendo).
In compenso, le privatizzazioni hanno rappresentato una provvidenziale scialuppa di salvataggio per capitalisti in difficoltà nel settore manifatturiero. Pirelli comprò Telecom nel 2001, quando entrarono in crisi i settori cavi e sistemi di telecomunicazione, Benetton lanciò l’offerta pubblica di acquisto sulle azioni Autostrade nel 2003, dopo aver chiuso il 2002 con un risultato operativo in calo del 15% e una perdita netta di 10 milioni di euro. Come scrisse anni fa Giangiacomo Nardozzi, «la grande stagione delle privatizzazioni ha sì lasciato la gran parte delle attività dismesse in mani italiane, ma a costo di indebolire lo slancio competitivo di importanti pezzi dell’industria, offrendo occasioni di più facili profitti». Se i primi undici anni del nuovo millennio hanno visto la crescita più bassa dal dopoguerra il motivo va ricercato anche in questo. Il consenso quasi unanime che le privatizzazioni hanno ricevuto in sede parlamentare è probabilmente uno dei motivi per i quali non si è mai sviluppato un effettivo dibattito sui loro effetti. «Pubblico» intende contribuire a colmare questa lacuna. E vuole farlo a partire da un punto di vista particolare. Le privatizzazioni sono state anche un processo che ha coinvolto milioni di lavoratori. La loro voce non è stata mai ascoltata.
Li invitiamo a raccontarci le loro storie dopo essere diventati piccoli azionisti ed aver partecipato ai collocamenti di aziendei di Stato. A dirci in che modo le privatizzazioni hanno cambiato la loro impresa, il loro lavoro e la loro vita. Come è andata a finire? 
Scrivetecelo sulla mail redazione@pubblico.eu

pubblico 20 settembre 2012

giovedì 20 settembre 2012

Ripartono gli operai di Pomigliano



di Giuliano Pennacchio
Un’assemblea operaia, promossa dalla FIOM per ripartire dopo le menzogne sul piano Fabbrica Italia di Sergio Marchionne. Al Gian Battista Vico a luglio 2013 scade la cassa integrazione per quei lavoratori, più di duemila, che non sono stati assorbiti nella Newco.  La rabbia taglia l’aria. Franco Percuoco delegato FIOM è estremamente chiaro: è in ballo il futuro di migliaia di famiglie e di una intera comunità. Non c’è più tempo: occorre una proposta che garantisca tutti i quattromila lavoratori della FIAT di Pomigliano (i duemila che stanno in fabbrica e gli altri che restano oggi fuori) per ricostruire l’unità e per poter mantenere il posto di lavoro.

Ridurre l’orario, far partire i contratti di solidarietà, ridistribuire il lavoro in tempo di crisi, così come stanno facendo alla Wolkswagen, è questa la ricetta di buon senso che i vertici della FIOM offrono anche alle altre forze sindacali. Il governo Monti non se la potrà cavare solo appellandosi alla libertà d’impresa. Si sono  lasciate libere le mani alle imprese  per troppi anni; alla FIAT si è permesso di delocalizzare le attività senza nessun vincolo, dopo aver utilizzato cospicui finanziamenti pubblici a perdere.
La storia del padronato italiano un po’ straccione ed indisponibile ad un qualsiasi rischio dei propri capitali si ripete: il piano Fabbrica Italia è una evidente riprova; Andrea Amendola, segretario regionale FIOM, lo denuncia con chiarezza e si spinge oltre: occorre cambiare un quadro generale per ricostruire rapporti di forza più favorevoli ai lavoratori.
In tal senso un forte impegno dovrà essere profuso per la raccolta di firme per i quesiti referendari che chiedono l’abolizione dell’articolo 8 imposto in finanziaria dall’allora ministro Sacconi (confermato dalla ministro Fornero) che consente in qualsiasi azienda, di derogare i contratti collettivi  nazionali  e il ripristino del vecchio articolo 18 sulla reintegra al posto di lavoro  per licenziamento senza giusta causa. La battaglia degli operai di Pomigliano passerà anche attraverso il ripristino dei diritti e al Gian Battista Vico, molto presto, si costituirà il Comitato per i due referendum sul lavoro.
La tensione sale. Viene deciso di organizzare un corteo per le strade della città e subito viene contestato un ex consigliere regionale del PD che era  lì.
I lavoratori si dirigono al Comune. La giunta di centro – destra, che ha sponsorizzato il Piano Italia di Sergio Marchionne si barrica nella casa comunale; accorre la polizia. Il corteo si sposta, allora, sotto la sede della UIL, un sindacato ‘amico’ di Marchionne; partono alcune uova che colpiscono la sede sindacale. La protesta si conclude con un blocco stradale fuori la zona industriale.
Tante faccia nuove di lavoratori non iscritti a nessun sindacato, tanti giovani e la consapevolezza che la lotta sarà dura. A Roma, a Roma, è la richiesta che sale dal corteo. FIAT, ALENIA, ILVA, ALCOA il governo Monti non potrà più sfuggire alle sue responsabilità.

mercoledì 12 settembre 2012

Nazionalizzare Alcoa, Carbosulcis e Ilva


di Fabio Marcelli
La manifestazione di ieri a Roma degli operai dell’Alcoa ha mostrato a quali livelli sia giunta l’esasperazione dei lavoratori e delle lavoratrici del nostro Paese. Personalmente mi dispiace che a farsi male, come al solito, siano stati qualche operaio e qualche poliziotto e carabiniere, lavoratori delle forze dell’ordine, ma lavoratori anch’essi, come più volte ho sostenuto e continuerò a fare. Non è infatti accettabile che i conti lasciati da una classe politica, imprenditoriale e finanziaria impresentabile e incompetente siano pagati come al solito da chi lavora. E soprattutto non è accettabile che migliaia e migliaia di famiglie, in Sardegna, come nel resto d’Italia, siano di fronte al baratro della disoccupazione e della miseria.

La contestazione a Fassina, che pure non è il peggiore fra i democratici, ma che paga le politiche scandalose di un partito che ha oramai abbandonato la rappresentanza del lavoro, dovrebbe finalmente parlare chiaro e aprire gli occhi a quanti continuano a sostenere in buona fede il governo Monti.

Dopo aver portato l’acqua con le orecchie al capitale finanziario, che pure a parole ha criticato dalla tribuna del festival nazionale Pd, il buon Bersani si appresta a essere liquidato e sostituito da un Renzi qualsiasi, che costituisce uno dei cavallini, più o meno di razza, che le caste dominanti si apprestano a lanciare sulla scena politica. Si continua così la tradizione degli utili idioti, che nel nostro Paese risale perlomeno fino a Togliatti, il quale almeno aveva tutt’altra classe e qualche risultato lo portava a casa.

Ma queste, in fin dei conti, sono questioni secondarie. Quello che conta è che il prezzo della crisi si vuole ancora una volta farlo pagare alla classe operaia e alla stragrande maggioranza del popolo italiano, e nessuno può negare che questa sia la direzione in cui, con coerenza ed efficacia, si è mosso fin dall’inizio il governo Monti, forte dell’appoggio di Napolitano e di ABC.

Al tempo stesso stupisce il cinismo e il disinteresse dei cosiddetti tecnici nei confronti della struttura industriale del nostro Paese. Abbiamo o no bisogno di alluminio, acciaio, energia e tante altre cose? E perché continuare nell’illusione che il capitale multinazionale debba per forza essere interessato a salvare la situazione? Perché  sottostare ai diktat dei predatori stranieri e nostrani (a partire da Marchionne)?

L’unica soluzione, come correttamente indicato da Paolo Ferrero, è, in assenza di alternative praticabili che consistano nell’identificazione di soggetti credibili disposti a investire, la nazionalizzazione di tutti i settori strategici, a partire da Alcoa, Carbosulcis e Ilva. Si tratta insomma di invertire il percorso disgraziato iniziato circa vent’anni fa con le dismissioni, i cui risultati assolutamente catastrofici sono sotto gli occhi di tutti e che oggi questo governo vorrebbe purtuttavia riprendere e portare alle estreme conseguenze.

Certo occorrono investimenti per salvare ed estendere l’ccupazione, garantendo al tempo stesso l’ambiente e la salute.

Questo ovviamente richiede la messa in discussione profonda dei dogmi ideologici che presiedono attualmente alle politiche europee e dei corposi interessi di classe che li sottendono. Ma questo è oggi più che mai necessario per uscire dalla crisi e andare avanti. O qualcuno si illude che bastino i pannicelli caldi del signor Draghi?

Sono assolutamente convinto che è vero l’opposto di quanto affermato recentemente da Monti, il quale ha tendenziosamente affermato che non è pompando soldi pubblici che si otterrà la ripresa. Infatti la storia ha sufficientemente dimostrato che senza uno sforzo degli organismi pubblici e una direzione precisa l’economia da sola né si autoregola né si rilancia. Ciò è stato anche teorizzato dagli economisti più avveduti e intelligenti, da Lord Keynes agli odierni Stiglitz, Krugman, Roubini.

Vorrei aggiungere che l’intervento pubblico si rivela particolarmente  necessario laddove sia necessario trovare la giusta composizione fra interessi collettivi solo apparentemente in conflitto come, nel caso dell’Ilva, quello alla salute e quello al lavoro. La soluzione è infatti a portata di mano, facendo come in Germania e altrove, e cioè introducendo effettive salvaguardie ambientali e sanitarie al livello del processo produttivo. Il che ovviamente ha un certo costo che deve essere sostenuto dalle finanze pubbliche, espropriando una classe imprenditoriale che ha dimostrato di non essere assolutamente all’altezza e continua a prendere in giro i lavoratori, la città di Taranto e la stessa magistratura.

Baggianate ideologiche, dirà qualcuno. Nossignori, non avete capito che state seduti sopra un vulcano e che questa nostra povera società italiana è destinata ad esplodere o, peggio ancora, a soffocare lentamente implodendo, processo del resto già cominciato da alcuni anni a questa parte. Nessuno si illuda di poterne uscire indenne. Così si distrugge un intero Paese.

ilfattoquotidiano.it


giovedì 6 settembre 2012

Afa e voglia di votare

La polemica che sta ravvivando gli ultimi giorni dell’afa contrastata fra la il divino e la commedia greca è sicuramente quella sulla necessità di andare a votare al più presto per eleggere un Sindaco dei cittadini nella Città del Palio e sostenuta fino ad oggi, pare, solo dal PD. Del resto sia l’abbandono del Consiglio Provinciale da parte della maggioranza (fatto forse mai accaduto fino ad ora) e sia i lavoratori che sono in lotta e senza stipendio e le ditte che non riscuotono le fatture perché la Provincia ed i comuni hanno bloccato i pagamenti, perché da una parte c’è il Patto di Stabilità e dall’altra i bilanci condizionati dalle mancate erogazione della Fondazione e quindi senza margini di manovra, così come il futuro assetto istituzionale della regione, non meritano né discussioni, né forum e tantomeno tavole rotonde. Sono bazzecole diceva il Principe. E poi queste cose non fanno notizie o forse e meglio tenerle nascoste, altrimenti si spariglierebbe troppo.

Generalmente le elezioni s’invocano quando il popolo ha bisogno di essere rappresentato e tutelato nei confronti del potere, ma non mi pare che le cose stiano proprio così. Personalmente, non amo i commissari e figuriamoci quelli straordinari, ma quando la politica occupa il potere e lo gestisce attraverso le nomine ed occupa le poltrone delle aziende con ex sindaci, ex presidenti, ex assessori e spesso questi, invece di mettersi al servizio del popolo diventano lo specchio della finanza, dei titoli e delle manovre, rimangono due sole alternative: il governo del popolo o i commissari. Siccome il primo contrasterebbe con le logge e con la massoneria, perché troppo pericoloso e comunista, rimane l’unica scelta possibile: i Commissari, augurandoci che non tradiscano i valori costituzionali.

A proposito di Costituzione, se ci fossero i partiti, quelli veri, quelli della rappresentanza dei cittadini e non delle lobbie, si potrebbe anche votare, ma in questo modo, con questa legge elettorale ed in queste condizioni si favorirebbero solo le manovre di palazzo e l’occupazione di poltrone prive di significato e di autorevolezza.

Quindi prima di andare a votare bisognerebbe preoccuparsi di rifare una classe politica, magari ripartendo dal secchio e dalla colla e non da “quello porta voti”, non serve una classe dirigente votata perché è sostenuta dalla stampa e perché conosce gli intrighi del palazzo, serve una classe politica che rappresenti il popolo, che non abbia  paura del palazzo e soprattutto che abbia in se rispetto, tensione ideale, coerenza, rigore, onestà e passione ed infine se non si scrive sui programmi che occorre togliere il diritto acquisito ai privilegi a chi/che serve andare a votare.

 

Antonio Falcone

mercoledì 5 settembre 2012

CONTINUA LA MACELLERIA SOCIALE


CONTINUA LA MACELLERIA SOCIALE

Dopo la riforma delle pensioni, la devastante riforma del mercato del lavoro, l'IMU sulla prima casa, l'aumento dell'IVA, l'aumento delle tasse sulla benzina.... ora il governo Monti si inventa una nuova devastante manovra che dietro l'innocuo nome di “spending review” cela un mare di tagli indiscriminati allo stato sociale ed ai servizi pubblici essenziali.
La sanità  e l'istruzione saranno i settori più colpiti assieme agli enti locali, provocando un peggioramento dei servizi ed un serio aumento dei costi per gli utenti.

Nel testo definitivo varato dal Consiglio dei Ministri, fra le altre cose  colpiscono:

-tagli per 7,2 miliardi a regioni (3,2 mld), comuni (2,5 mld) e province (1,5 mld) che renderanno impossibile l'erogazione dei servizi attualmente gestiti e le agevolazioni per i cittadini meno abbienti;

-tagli per 5 miliardi alla sanità che significano la chiusura di molti ospedali, la riduzione di  decine di migliaia di posti letto, l'aumento dei tempi di attesa (già molto lunghi) per prestazioni specialistiche;

-riduzione del 10% dei dipendenti pubblici con la conseguente riduzione degli orari di apertura degli uffici, oltre alla creazione di molte decine di migliaia di nuovi disoccupati.

La “spending review” è l'ennesima vergogna prodotta dal governo trasversale dei partiti del grande capitale finanziario (PD, Pdl UDC...) che continua a colpire la grande maggioranza della popolazione senza intaccare le rendite di banchieri e speculatori.
Vergogna che stride ancor di più col contemporaneo ulteriore  rifinanziamento deciso dal governo delle missioni militari all'estero, del pozzo senza fondo (da 15 miliardi di euro) del progetto dei cacciabombardieri F-35, delle grandi opere inutili che resteranno incompiute, come la TAV in Val di Susa....




Circolo “G.K.Zhukov” PRC Poggibonsi

FERMIAMO LA SPECULAZIONE



FERMIAMO LA SPECULAZIONE

La speculazione finanziaria non è un fenomeno naturale né inevitabile. E' il prodotto delle politiche assunte dall'Unione Europea, che hanno impedito alla BCE di rifinanziare direttamente gli stati, ma la obbligano, invece, a prestare denaro alle banche private a tassi d'interesse irrisori (sotto l'  1%) e costringono gli Stati a vendere i propri titoli alle stesse banche, che si fanno pagare interessi altissimi (intorno al 6% e oltre).
I governi che si sono succeduti in Italia, come in molti altri altri paesi europei, invece di contrastare questo problema, hanno usato la minaccia della speculazione (cioè della mancata vendita dei propri titoli sul mercato e del conseguente default) come una clava per far accettare ai popoli europei  controriforme devastanti, utili soltanto ai banchieri ed ai grandi capitalisti,  dalla riduzione dei diritti dei lavoratori (e quindi dei salari), alla riduzione del costo delle pensioni, alla distruzione del welfare  con la privatizzazione dei servizi.
Queste riforme, peggiorano drasticamente il tenore di vita dei popoli, riducono la loro capacità di spesa, e quindi aggravano la crisi dell'economia reale. L'assenza di profitto nei settori produttivi produce nuova speculazione finanziaria, in un circolo vizioso che sta spingendo l'Europa verso il baratro.....

RIFONDAZIONE COMUNISTA SI BATTE, INSIEME AGLI ALTRI PARTITI DELLA SINISTRA EUROPEA (dal Front de Gauche a Syriza, dalla Linke a Izquierda Unida) PER   ELIMINARE ALLA RADICE IL RICATTO DELLA SPECULAZIONE  SUL DEBITO PUBBLICO, TRASFORMANDO LA BCE IN UNA BANCA CENTRALE EFFETTIVA (come la FED negli USA o la Banca Centrale cinese), IN GRADO DI ACQUISIRE DIRETTAMENTE I TITOLI DEGLI STATI SUL MERCATO PRIMARIO AL TASSO UFFICIALE DELLO 0,75%.

Circolo “G.K.Zhukov”  PRC Poggibonsi

Quando, come e perché s’impennò il debito pubblico



di Domenico Moro
Nel 1981 la Banca d’Italia divorziò dal Tesoro e praticamente cessò di acquistare Titoli di Stato. Da allora essi vennero dati in pasto, con interessi crescenti, prima al mercato interno, e poi alla speculazione finanziaria mondiale. Perché questo avvenne? Quali le conseguenze?
In questi giorni la stampa tedesca ha attaccato con forza Draghi. Sulla Frankfurter Allgemeine Zeitung, Holger Steltzner, lo ha accusato di voler trasferire alla Bce i metodi della Banca d’Italia. Questa sarebbe al servizio dello Stato, di cui alimenterebbe le casse. Se ora la Bce finanziasse i debiti statali acquistandone i titoli, scatenerebbe l’inflazione e aggraverebbe la crisi dell’eurozona.

Come ha fatto notare anche il Sole 24ore, le critiche di Steltzner alla Banca d’Italia sono infondate. A partire dal 1981 la Banca d’Italia ( su decisione di Beniamino Andreatta e Carlo Azeglio Ciampi) ha “divorziato” dal Tesoro e non è più intervenuta nell’acquisto di titoli di Stato. Ciò che non viene detto, però, è che quella lontana decisione contribuì a produrre non solo l’enorme debito pubblico ma anche il primo attacco ai salari. L’attuale debito pubblico italiano si formò tra gli anni ’80 e ’90, passando dal 57,7% sul Pil nel 1980 al 124,3% nel 1994. Tale crescita, molto più consistente di quella degli altri Paesi europei, non fu dovuta ad una impennata della spesa dello Stato, che rimase sempre al di sotto della media della Ue e dell’eurozona e, tra 1991 e 2005, sempre al di sotto di quella tedesca.

Nel 1984 l’Italia spendeva – al netto degli interessi sul debito – il 42,1% del Pil, che nel 1994 era aumentato appena al 42,9%. Nello stesso periodo la media Ue (esclusa l’Italia) passò dal 45,5% al 46,6% e quella dell’eurozona passò dal 46,7% al 47,7%. Da dove derivava allora la maggiore crescita del debito italiano? Dalla spesa per interessi sul debito pubblico, che fu sempre molto più alta di quella degli altri Paesi. La spesa per interessi crebbe in Italia dall’8% del Pil nel 1984 all’11,4%, livello di gran lunga maggiore del resto d’Europa. Sempre nello stesso periodo la media Ue passò dal 4,1% al 4,4% e quella dell’eurozona dal 3,5% al 4,4%.

Nel 1993 il divario tra i tassi d’interesse fu addirittura triplo, il 13% in Italia contro il 4,4% della zona euro e il 4,3% della Ue. La crescita dei debiti pubblici dipende da molte cause, soprattutto dalla necessità di sostenere le crisi e la caduta dei profitti privati che, dal ’74-75, caratterizzano ciclicamente i Paesi più avanzati. Tuttavia, è evidente che politiche sbagliate di finanza pubblica possono rendere ingestibile la situazione del debito, come è avvenuto in Italia. Visto che l’entità dei tassi d’interesse sui titoli di stato, ovvero quanto lo Stato paga per avere un prestito, dipende dalla domanda dei titoli stessi, l’eliminazione di una componente importante della domanda, quale è la Banca centrale, ha avuto l’effetto di far schizzare verso l’alto gli interessi e, quindi, di far esplodere il debito totale.

Inoltre, la mancanza del cordone protettivo della Banca d’Italia espose il nostro debito alle manovre speculative degli investitori internazionali. Fu quanto accadde nel 1992, quando gli attacchi speculativi alla lira costrinsero l’Italia ad uscire dal Sistema monetario europeo e a svalutare. Insomma, non solo Steltzner ha torto riguardo alla Banca d’Italia, ma è il principio stesso dell’“autonomia” della Banca centrale, da lui tanto tenacemente difeso, ad aver dato per trent’anni in Italia gli stessi risultati negativi che ora sta producendo nell’eurozona.

Ci si potrebbe chiedere a questo punto quale fu la ragione del divorzio tra Banca d’Italia e Tesoro. Ce lo spiega il suo autore, l’allora ministro del Tesoro Beniamino Andreatta. Uno degli obiettivi era quello di abbattere i salari, imponendo una deflazione che desse la possibilità di annullare “il demenziale rafforzamento della scala mobile, prodotto dall’accordo tra Confindustria e sindacati”. Infatti, nel 1984 con gli accordi di San Valentino la scala mobile fu indebolita e nel 1992 definitivamente eliminata. Anche oggi, come allora, le presunte “necessità” di bilancio pubblico sono la leva attraverso cui ridurre il salario, in Italia e in Europa. Con la differenza che oggi l’attacco si estende al salario indiretto, cioè al welfare.

sollevazione.blogspot.it

sabato 1 settembre 2012

"La fretta del Pd per le elezioni…e il nuovo buco di 43 milioni in Provincia" "Stanno venendo al pettine tutti i nodi e gli sbagli degli ultimi anni"


SIENA. Può capitare che presi dal panico e da troppa fretta si commettano degli errori ed è quello che sta succedendo nel PD Senese: ora che stanno venendo al pettine tutti i nodi e gli sbagli degli ultimi anni, la fretta di invocare le elezioni subito e tornare nelle stanze dei bottoni al più presto è davvero tanta e sotterra ogni discussione su progetti e contenuti riguardanti ad esempio la garanzia per tutti dell’accesso a dei servizi sociali di qualità. Se tanta è l’impazienza da poltrona è perché gli errori sono stati davvero tanti, dall’acquisto di Antonveneta, alla gestione dell’Università, fino all’ultimo dramma di oggi in Provincia, dove la maggioranza ha abbandonato il consiglio per non discutere della Fondazione MPS, facendo finta che il credito di 43 milioni di euro della Provincia nei confronti della Fondazione non incida sul patto di stabilità e le imprese che non riscuotono le fatture non rappresentino un problema occupazionale, così come la paventata riduzione delle azioni detenute dalla Fondazione non sia un elemento di cui la rappresentanza debba sentirsi coinvolta.
Due pesi e due misure tra la politica nazionale, dove il PD lascia fare a Monti il lavoro sporco (taglio delle pensioni, aumento delle tasse e riduzioni dei diritti acquisiti, riportandoci indietro nella qualità della vita agli anni 50) dandogli tutto l’appoggio possibile, mentre a Siena s’invoca e si smania per ritornare in sella! Per far questo ogni mezzo è buono; dalle liste di proscrizione sfuggite dalla rete, all’indizione di manifestazioni per il Santa Maria della Scala concomitanti con quelle dei dipendenti, fino a prendersi il merito dello stanziamento da parte della Regione di 400.000 euro per non chiudere lo stesso Santa Maria ed ,infine, la chiamata delle organizzazioni di categoria “amiche” ad appoggiare le “elezioni subito”, naturalmente per riportare in auge il Ceccuzzi, subitissimo, altrimenti chissà cosa succede …
Abbiamo già visto tutto questo teatrino ogni volta che si è voluto rilanciare l’aeroporto. Tutti con una voce sola ad esibire bisogni irrinunciabili di volare mentre l’unica cosa che son volati davvero sono stati gli avvisi di garanzia. Siamo in attesa di leggere l’appello alle elezioni da parte di molte associazioni di volontariato, ampiamente infiltrate e dominate dal “Partitone” che come soldatini obbediranno alla chiamata. Perfino il finto rottamatore Renzi (quello del: Sto con Marchionne - Sto con la Tav, L’appello per l’acqua pubblica non lo firmo.) è venuto in città a dare il suo tributo e tra una battuta e l’altra, invoca la coesione tra le correnti e invita tutti a convergere su Ceccuzzi.
Ecco se i dirigenti del PD volessero davvero fare del bene a questa città, dovrebbero uscire dalle feste e dalle sezioni ed andare tra la gente dove potrebbero ascoltare l’umore vero, non quello imposto, delle persone. Ebbene, cari piddini il popolo l’avete deluso, è passata l’idea che non avete più nessuna passione per la Politica ma solo per le poltrone, è passata l’idea che i Beni Comuni non vi interessano, piuttosto le carriere, vedi gli incarichi di quelli che hanno fatto più danno! Mai si arretra e si paga, ma sempre si va avanti e si riscuote! Lampante esempio di ciò si è avuto la sera che Profumo è stato in Fortezza ed i manifestanti montepaschini hanno trovato ad attenderli la Polizia antisommossa, i carabinieri e i vigili, (nemmeno fossero dei Black-Block) a protezione evidentemente della festa del Pd e dei suoi organizzatori. In quel frangente è emersa, in tutta la sua drammaticità, l’incapacità e la non volontà nell’affrontare a viso aperto e con dignità una realtà sociale che pretende delle risposte a tutela dei lavoratori e non delle cricche degli affaristi. Ceccuzzi, invece, chiamato dai lavoratori ha scelto di tirare dritto e di inviare poi i suoi emissari Carli e Guicciardini.
In mezzo a tutti questi problemi irrisolti che attanagliano la cittadinanza senese e nonostante la “vicinanza” della stampa locale è chiaro il perché il PD voglia andare alle elezioni subito alfine di far partire avvantaggiato Ceccuzzi che potrebbe riproporre il solito pacchetto, mentre le altre forze avrebbero da organizzarsi! Si tenta di giocare quindi a chi parte primo! Ma attento Ceccuzzi anche nel Palio non sempre chi parte primo arriva primo.
Matteo Mascherini - Segretario provinciale PRC Siena